martedì 15 ottobre 2013

La vita è fatta a scale, c'è chi le scende e chi le sale. E c'è chi rimane incastrato.


Non so come mi è presa sta vena amarcord, sarà sto periodo di presomalismo esistenziale, ma tant'è. Stavolta m'è venuta voglia di raccontare di quando rimasi incastrato tra due gradini di una scala interna. E, cosa peggiore, dopo averlo fatto scientemente. 
Non so quale palla inventai per spiegare come mi ero infilato (nel vero senso della parola) in quella situazione. 


Vedete, ho sempre avuto imbarazzo per le mie cazzate. Per dire, la prima e unica volta che ho preso un pugno in faccia, per giustificare l'occhio pesto, avevo detto a casa che ero scivolato per le scale (aridaje) e avevo dato una facciata sul corrimano. E invece il destro me lo aveva sparato Sera, mio compagno di elementari e medie, al termine di una lezione del corso di disegno pomeridiano (ebbene sì, ho fatto anche un corso di disegno, ma so disegnare proprio come uno che non ha fatto un corso di disegno. Da qualche parte, a casa di mio padre, devo avere ancora un pescatore in barca fatto da me. Un capolavoro, ma che ve lo dico a fare). Insomma, facevamo prima o seconda media, stavo prendendo in giro l'amico chissà su cosa e lui sbàm! destro sull'occhio e Pavanello ko. Troppo imbarazzante da confessare ai miei. Il pugno non gliel'ho mai ridato. Non glielo ridarò mai. Voglio dire, si è laureato in fisica e ha fatto il consigliere comunale per Rifondazione comunista, che gli vuoi fare ancora?

Ma torniamo alla storia che volevo raccontarvi. Insomma, avevo 8 o 9 anni e stavo giocando, come quasi ogni pomeriggio a casa del mio inseparabile amico Bido, che all'epoca chiamavo ancora Davide e aveva (ha) due anni scarsi meno di me. E qui devo fare un altro inciso: la suddetta casa era su tre livelli. C'era la tavernetta-cantina con il tavolo da ping-pong, che ci avrebbe visto sfidarci da più grandicelli. Quella stessa tavernetta avrebbe poi ospitato anche qualche festicciola, come quella in cui mi ritrovai a ballare un lento (ballavamo i lenti come nel Tempo delle mele! Che ganzi che eravamo...) stretto stretto a questa ragazzina dalle tette enormi ma una fiatella che... se me la ricordo ancora adesso, fate voi. Son traumi.
Poi c'era la mansarda, camera da letto di Bido e Dona (la di lui sorella maggiore). E quello era davvero il nostro regno perché passavamo ore a giocare a subbuteo e a fare tornei con un pallina di spugna. La superficie di gioco era una moquette colore verde Anni 80 (io le ho sempre viste di quel colore, i più eccentrici avevano osato il blu, ma a me quelli non l'hanno mai contata giusta). Ci si alternava al tiro e in porta, le gambe del letto di Bido erano i pali, si stava in ginocchio ed era tutto un consumare i pantaloni (quasi sempre della tuta e rigorosamente dotati di toppe), i calzini sempre lisi, con l'alluce e i calcagni di fuori, sudate epiche e poi i calci agli spigoli, oh quanti... un massacro.

La mansarda si raggiungeva tramite una tipica scala interna in legno posizionata in salotto. Tra un gradino e l'altro c'era uno spazio vuoto e va sapere perché quel pomeriggio iniziammo a strisciare sotto il gradino più basso: ventre sul pavimento e via. Poi tra il primo e il secondo. E anche qui nessun problema: si sgusciava come anguille. Ma si sa, ad osare si rischia sempre, e forse quel giorno commisi un peccato di ὕβρις (se non avete fatto il Classico, non è un problema mio), fatto sta che mi infilai tra il secondo e il terzo gradino. Mal me ne incolse. Quando arrivò il momento di far passare il torace, rimasi completamente bloccato: impossibile andare avanti, impossibile tornare indietro. Incastrato, stop. 

Ora immaginatevi la scena: c'è un bimbo infilato da tra due piani di legno, tipo gatto (avete presente?), un altro bimbo che prova ad aiutarlo ad uscire tirandolo per braccia o gambe, ma inutilmente. A completare il quadro c'è una nonnina che si aggira per casa, minuta e con aria spersa (poverina, aveva non so quale problema neurologico e non era presente a se stesso). Ok, voi adesso ci ridete, ma questo fu un trauma per me (lo so, uno dei tanti). Rimasi in quella posizione per non so quante ore: due o tre, forse di più; ho rimosso. Nel frattempo rientrarono a casa Dona, che faceva le scuole medie, e finalmente Anna, la loro mamma. Chissà che spavento si prese.

Per farla breve, via il maglione (o la giacca della tuta, va a sapere), via la maglia (ipotizziamo a collo alto, ché all'epoca spaccavano), via la canottiera, via i pantaloni (sic!). Rimasi con le sole mutandine e finalmente Anna riuscì a disincagliarmi tirandomi per le braccia. Risultato: schiena, torace e pancia graffiate, e un imbarazzo che non vi sto manco a dire. Non so quale panzana dissi per giustificare l'accaduto, sicuramente dissimulai e di nuovo mi inventai di essere scivolato (credo infrangendo almeno due o tre leggi della fisica).

Il vero problema è che la lezione nemmeno mi è servita: non ho mai smesso di infilarmi in situazione scomode. 

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