martedì 23 ottobre 2012

Roba di ontologica bellezza nell'arte pedatoria di Diego

Io non ho mai capito fino in fondo se è il calcio ad essere una metafora della vita o il contrario, ma so quanto lo amo. Consapevole del suo bello e del suo brutto. 
Due delle sue svariate facce sono andate in scena in questi giorni: da una parte il maldestro tentativo di fare dell'ironia su quanto di più becero (razzismo da stadio) c'è nel calcio per mano di uno scarso giornalisa e gli inqualificabili cori contro Piermario Morosini da parte dei nazitifosi del Verona, dall'altra una splendida mezz'oretta di grande tv andata in onda su Sky: il racconto di Maradona fatto da Federico Buffa.



Ed è proprio su quest'ultimo che vorrei soffermarmi. Intanto perché è un prodotto televisivo fatto benissimo (i complimenti vanno anche al mio amico Federico Ferri, che lo ha curato) e poi perché mi ha commosso. Ma sul serio. Con tanto di lacrime. Difficile spiegare il perché. Diciamo che, come dicono i giovani, mi sono trovato davanti a "tanta roba". Sia sul piano della narrazione "filmica", che su quello del mero atto pedatorio, settore in cui Diego Armando Maradona è stato interprete pazzesco. Ma non sono certo qui per sottolineare l'ovvio. Chiunque abbia visto el Pibe de oro con il pallone tra i piedi sa cosa intendo. E, se siete appena arrivati da Marte, mettetevi in pari. Che fa bene al cuore. E nemmeno mi interessa ricordare la sua parabola di uomo, prima ancora che atleta.

Insomma, sabato pomeriggio, prima di andare allo stadio per gustarmi Juve-Napoli, mi sono inpoltronato e ho goduto davanti a "Un diez de cuero blanco" ("Un dieci di cuoio bianco"). Non sto qui a riassumervi il racconto magistralmente fatto da Buffa, sarebbe inutile e vi consiglio di cercarlo su Youtube, vi basti sapere che si concentra soprattutto sul Diego bambino e ragazzo. Io non sono stato un tifoso di Maradona, io ero per Platini, l'argentino del Napoli per me era una avversario, ogni suo gol alla Juve era un pugno dello stomaco. Ma oggi, dopo 16 anni, come non puoi applaudire con il sorriso stampato in faccia a quella incredibile torsione della caviglia per calciare la famosissima punizione con cui uccellò Tacconi, lanciando i partenoperi verso lo scudetto? E quei tiri, quei pallonetti, quegli assist, quelle serpentine, quei controlli di palla fatti nella maniera più naturale possibile, beh, quelli sono il calcio, sono arte. E, allora, rivedere oggi quel Maradona è un vero piacere per gli occhi. E sì, io ho avuto la fortuna di vedere Zidane allo stadio e in tv, oggi c'è Messi e nel cuore ho Roberto Baggio e Alex Del Piero, ma Maradona è Maradona, è una cosa a parte. Lo so, lo riconosco e sono consapevole che non vedrò mai più niente di simile in vita mia.

Ed è questo il calcio che mi piace, quello capace di emozionarmi anche solo grazie a un gesto tecnico, a una giocata. Anche rivista a distanza di anni e apprezzata nella sua ontologica bellezza, fine a se stessa (anche se Maradona era classe applicata all'ottenimento del risultato). Sia chiaro, resto schifosamente tifoso bianconero: anche la punizione di Cavani è stata un gran gesto, sabato sera, ma sono molto più contento che sia andata sulla traversa che in gol, e che oggi il Napoli non abbia un Maradona mi dà gioia. Però, però... però il racconto di Buffa è una di qulle cose che mi fa essere felice di amare il calcio e provare dispiacere per chi non capisce che cosa questo sport, questo gioco, questo "sporco affare" è capace di dare.  

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